Per secoli si è dato per scontato nel mondo
occidentale che i Dieci Comandamenti fossero importanti per ogni tempo e in
ogni luogo. Gli esempi possono essere tanti. Basti pensare che in alcune
liturgie riformate sono inseriti dopo la confessione dei peccati come guida per
la vita cristiana.
Questa evidenza e centralità dei comandamenti
è andata via via scemando nella cultura occidentale. Davide Baker, nell’introdurre
il suo volume Il Decalogo. Vivere come popolo di Dio, tradotto
dall’inglese per i tipi della Queriniana, parla di questa marginalizzazione
soprattutto nell’ambito dell’etica nazionale e internazionale. «Nelle società occidentali
– scrivere Baker – moderne l’importanza dei Dieci Comandamenti è meno ovvia. Le
chiese in Gran Bretagna hanno fallito ampiamente nell’opporsi alla
liberalizzazione delle normative sul lavoro di domenica. Negli Stati Uniti si è
discusso vigorosamente sul fatto che i comandamenti dovessero essere esposti
nelle scuole e nei luoghi pubblici, e in varie occasioni è stato stabilito dai
giudici che i monumenti su cui fossero incisi i comandamenti dovessero essere
rimossi» (p. 5).
Con un approccio allo stesso tempo documentale ed esistenziale, Baker cerca di mostrare l’attualità dei comandamenti. Per svolgere questo compito, l’a. segue una metodologia uguale nella presentazione di ognuno dei comandamenti: come primo passo, colloca ciascun comandamento nel contesto della legislazione e della cultura del Vicino Oriente antico. In secondo luogo spiega ogni comandamento nel contesto della Bibbia stessa (contesto canonico). Terzo, riflette su ciascun comandamento nel contesto mondiale attuale. Ed è questo terzo tratto che costituisce l’originalità di questo testo.
Prima di addentrarsi nei singoli comandamenti,
l’a. dedica una prima parte del libri a introdurre i Dieci Comandamenti con un’analisi
della loro struttura e forma, origine e scopo.
Per cominciare, il termine «Dieci Comandamenti»
deriva da un’espressione ebraica che letteralmente significa “dieci parole”.
Ricorre solo tre volte nell’Antico Testamento (Es 34,28; Dt 4,13; 10,4) e non
vi sono altre attestazioni fino agli scritti greci di Filone di Alessandria e
di Flavio Giuseppe nel I secolo d.C.
L’a. specifica che il termine Dieci Comandamenti «è piuttosto fuorviante perché il testo è molto più di un elenco di comandi a cui obbedire» (p. 12). Per questo motivo, molti studiosi e predicatori preferiscono il termine Decalogo (dal greco, “dieci parole”).
Il Decalogo è riportato due volte nell’Antico Testamento, in contesti diversi e con formulazioni leggermente diverse. La prima è in Esodo 20,1-21, dove Dio parla direttamente al popolo di Israele sul monte Sinai dopo l’esodo dall’Egitto. Questo è integrato da Deuteronomio 5,1-22, dove il Decalogo è ripetuto come parte del discorso di Mosè al popolo prima di entrare nella Terra Promessa.
La particolarità del Decalogo all’interno dei
precetti dell’AT è quanto viene sostenuto dalla narrazione, ovvero, che queste
parole «non solo furono pronunciate da Dio, ma furono anche scritte da lui sulle
tavole; tale affermazione non ha paralleli altrove nella Bibbia, tranne forse
nella scrittura sul muro in Daniele 5» (p. 43).
«Il Decalogo – continua l’a. – è l’unico ad
essere ascritto a Dio. Diversamente dal Libro dell’Alleanza, dal Codice di
Santità e dalle Leggi deuteronomiche – dove si sottolinea il ruolo di Mosè come
mediatore – il Decalogo è presentato come parole dirette di Dio» (p. 44).
Già queste specificazioni mostrano l’importanza
che le Dieci Parole rivestono all’interno del corpo dei precedetti dell’AT e
quanto, per chi accoglie la rivelazione giudeo-cristiana, tali parole devono
rivestire nel vissuto quotidiano e, quindi, l’importanza dello sforzo di
attualizzazione che il libro di Baker propone.
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