Ci sono nella
Bibbia pagine ruvide, pagine emarginate. Sono quelle che mostrano un volto di
Dio meno simpatico e, forse, meno empatico. La tentazione è quella di prenderne
le distanze, di ignorarle o, peggio ancora, “strapparle” virtualmente o
realmente dal testo sacro. Tale è stata la tentazione di diverse epoche, a
cominciare con il marcionismo. Ma anche i manichei – nelle cui reti è caduto
per ben dieci anni il geniale Aurelio Agostino – avevano decimato il testo
sacro. Dinanzi a questa tentazione, la Chiesa è stata sempre ferma: la Bibbia è
un testo sacro nel suo Antico come nel suo Nuovo Testamento. E Agostino, approdato
nella fede della Chiesa avrà da indicare, con la sua capacità di grande incisività,
il rapporto tra i due testamenti: Il Nuovo è celato nell’Antico; l’Antico è rivelato
nel Nuovo.
Tra queste pagine
ruvide, abbiamo quelle che parlano dell’ira di Dio, delle punizioni inflitte
verso i peccatori e i ribelli. Come conciliare l’immagine di Gesù buon pastore
che va in cerca della pecora smarrita e del Dio che castiga il popolo del suo
pascolo? Anzi, come pensare che questo Gesù mite sarà il giudice del mondo?
Non bisogna negare il disagio. Bisogna avere
la pazienza di avvicinarsi a quei testi, di parlarne a partire da una vera
conoscenza e non da un pregiudizio ereditato o da un giudizio affrettato. È quanto
fa Aldo Martin nel suo volume Anche Dio si arrabbia. L’ira e il giudizio
divini come modi estremi di amare, edito da Città Nuova.
Nelle Scritture,
per cominciare, «è presente l’ira di Dio, mai una sua presupposta cattiveria»
(p. 11). Inoltre, una separazione netta tra Antico e Nuovo Testamento non
risolverebbe il problema dell’ira di Dio, perché anche nel Nuovo si parla di
ira di Dio e di giudizio di Dio. Quindi, la questione va affrontata, con le dovute
sfumature, in tutto il testo sacro.
Come primo passo, l’a. riconosce che bisogna uscire dal negazionismo. L’a. è d’accordo con un altro classico recente sull’ira di Dio di R. Miggelbrink: «Se il messaggio dell’ira di Dio ha lasciato tracce tanto profonde nel documento ebraico-cristiano originario di una salvezza promessa da Dio agli uomini, non è possibile occuparsi della promessa biblica della salvezza di Dio per gli uomini senza cercare di dare una risposta anche alla questione del significato del discorso biblico dell’ira di Dio».
Il paradosso
evidenziato dall’a. è che i cristiani, dinanzi alla condanna dell’ira da parte
della koinè stoica, difendono l’ira di Dio. «Pur condividendo la
convinzione dei filosofi greci circa l’impossibilità di attribuire a Dio i
tratti squisitamente emotivi della collera umana, gli scrittori cristiani
difendono risolutamente l’idea secondo la quale riconoscere in Dio l’ira non
sminuisca affatto la perfezione della sua natura. Secondo questi autori il
tratto squisito della misericordia di Dio non confligge con quello più severo
della sua collera. Ira e bontà – per loro – convivono in Dio senza difficoltà
alcuna» (p. 19).
Lattanzio ribalda
l’argomento degli stoici dicendo che sarebbe indegno di Dio credere che egli
sia indifferente dinanzi all’ingiustizia: «Sarebbe sacrilego se, vedendo
commettere azioni simili [violenza, frode, saccheggio, spergiuro, ecc.], Dio
non si smuovesse, non si sollevasse per punire i criminali e sterminare questi
pericolosi flagelli della società, patrocinando così l’interesse dei buoni. Di
conseguenza, nella stessa collera è vivo il segno della bontà divina (in
ipsa ira inest gratificatio)».
Agostino, da
parte sua, sentenzia nella Città di Dio: «L’ira di Dio non è un
turbamento del suo spirito ma un giudizio con cui s’infligge la pena al
peccato» (15,25).
L’a. si inoltra
poi a esplorare più da vicino quanto dice l’AT riguardo all’ira di Dio, evocando
la categoria del rîb: « […] la collera compare in contesti di lite
giuridica (rîb), un procedimento giudiziale di controversia in uso a Israele.
Il momento dell’accusa prevedeva la possibilità di una esposizione espressa in
termini adirati; quindi, accanto alla classica terminologia forense, spesso si
incontra il lessico desunto dal campo semantico dell’ira. Questo fenomeno è
riscontrabile sia tra contendenti umani, sia quando a essere in lite con l’uomo
è Dio stesso. Così l’ira punitiva che procede da un desiderio di giustizia è
finalizzata alla correzione del colpevole e, in definitiva, alla
riconciliazione con lui» (p. 23).
Dinanzi all’oppressore,
Dio si fa difensore del povero e dell’oppresso. La sua ira non è solo
giustificata, ma è necessaria. Se Dio tacesse sarebbe complice del male. L’ira
è «la manifestazione della cura che Dio garantisce al debole ed è, quindi,
garanzia di giustizia per le categorie che non possono difendere da sole i
propri diritti» (p. 26).
La rassegna biblica
attraversa i vari libri ed esplora le varie teologie che sottostanno al motivo
dell’ira. Le conclusioni che raccolgono le varie sfumature sono sostanzialmente
due: l’ira come modalità per difendere il povero e l’oppresso; l’ira come
atteggiamento guidato da «meccanismo di contenimento» (cf. p. 83) affinché non
sia una passione incontrollabile, ma un atto volontario che realizzi i progetti
di bene e di amore di Dio. Dio è lento all’ira e ricco di amore/grazia/misericordia
(hesed) e di fedeltà (cf. Sal 86,15).
Se l’analisi dell’AT
aiuta a scoprire il volto positivo dell’ira divina, l’analisi fatta dall’a. del
NT punta giustamente a far venire a galla quei quadri dimenticati riguardo a
Gesù. Non di rado, nell’immaginario comune Gesù è dipinto con sdolcinate pennellate
di bontà smidollata. Attraversando il NT, specie i vangeli, appare un quadro
più completo, più reale e più sostenibile di Gesù. Ma questo quadro non
contraddice il Dio-amore, ma ne manifesta i veri lineamenti. Un tratto
evidenziato è quello della severità di alcuni insegnamenti di Gesù. L’a. spiega:
«Che Gesù sia severo non si presenta come un tratto estraneo al suo
insegnamento; sembra, invece, dovuto al fatto che la posta in gioco è
altissima: talmente grande e impensabile è il dono di salvezza che sta per
essere fatto, che l’uomo deve rispondere con una disponibilità radicale e
immediata, senza alcun tentennamento» (p. 97).
Il caso serio
della salvezza impone una serietà senza ombre e una severità che altro non è
che la cura vera di Dio: «Il messaggio è chiarissimo: all’opposto della
salvezza non c’è una salvezza a metà, ma l’esatto contrario: la perdizione
definitiva» (p. 99).
La prima parte sull’ira
è completata da una seconda dedicata al giudizio di Dio. Anche qui, il lavoro
dell’a. segue la stessa metodologia, sostando sui principali testi vetero e neo
testamentari che parlano di giudizio, analizzandone il contesto per capire il
messaggio del testo. Il giudizio di Dio non è necessariamente una condanna. È una
manifestazione. È lo smascheramento del male e il coronamento dei giusti. È il
riscatto degli oppressi. «Che Dio emetta un giudizio sugli empi e sui nemici è
sempre stato professato e compreso da Israele come una garanzia della
giustizia: se Dio, smascherando il male e dichiarandolo tale, ne è vindice,
allora c’è ancora spazio per la fiducia dei piccoli e degli indifesi contro lo
strapotere malvagio dei violenti» (p. 154).
I due tratti dell’ira
e della giudizio di Dio vertono spontaneamente verso l’esigenza di una
riflessione sulla salvezza. La salvezza intesa – balthasarianamente – come dramma:
come la libertà di Dio che cerca la libertà dell’uomo in questo teatro del
mondo e della storia con il desiderio di un felice ricongiungimento. L’a.
abbozza qui un tentativo di proposta sistematica che attraverss le suggestioni
di natura morale, soteriologica, analogica, esistenziale. L’esplorazione delle
varie prospettive manifesta la complessità della questione e spiega il motivo
per cui l’a. pone la sua proposta sotto il segno del punto interrogativo. L’ira
di Dio non va semplicemente spiegata. È impossibile giungere alla quadratura
del cerchio. Da qui l’apprezzabile sincerità della risposta dell’a.: «Quando si
crede di aver posto dei punti fermi, i classici paletti per delimitare la
questione dell’ira e del giudizio, ci si accorge che il tentativo di comporre
in unità i molteplici elementi raccolti è destinato ad andare all’aria» (p.
170).
Piuttosto che una
risposta che spenga l’interrogativo, l’ira di Dio ci invita a sostare nella
domanda, a prenderla sul serio, prendendo sul serio la nostra esistenza. Per
questo vale la pena chiudere questa presentazione con una finale aperta lasciata
dallo stesso Martin: «Tornare a riflettere sulla serietà dell’ira di Dio e del
suo giudizio finale, senza banalizzarne troppo in fretta i risvolti
esistenziali per il singolo e per la collettività, serve a porre la questione
in modo serio e efficace: se Dio – e Gesù con lui – sono così seriamente
preoccupati per la salvezza dell’uomo, perché non lo debbo essere anch’io? È
necessario percepire questo dramma e sentirlo sulla propria pelle. Sarò salvo
io? Sarà salvo mio figlio? Mio marito, mia moglie, quel mio parente, quel mio
amico? Dio vuole che tutti gli uomini giungano alla salvezza (cf. 2 Tm 2, 4), ma
è realmente la mia volontà? Faccio realmente tutto il possibile per la mia e
per l’altrui salvezza eterna? Oppure semplicemente ignoro la questione? S.
Paolo esorta a prendere molto sul serio la questione: «Dedicatevi alla vostra
salvezza con rispetto e timore» (Fil 2, 12)» (pp. 172-173).
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