Premessa
È mia abitudine
scegliere una lettura per la settimana santa per accompagnarmi, soprattutto nel
triduo pasquale. Tante volte ho ripreso in mano un testo profondamente
teologico e spirituale di Hans Urs von Balthasar, Teologia dei tre giorni.
Quest’anno ho voluto leggere un libro di Gianfranco (card.) Ravasi, Le setteparole di Gesù, edito dalla Queriniana, approfittando di una sua recente ristampa.
La prima edizione è del 2019.
Ci sono fiumi di
libri sulle ultime parole di Gesù. Ricordo ad esempio le meditazioni di Fulton
Sheen oppure quelle di Timothy Radcliffe, per menzionare solo due autori capaci
di parlare a un grande pubblico.
Eppure, l’opera
di Ravasi ha il suo posto tra questa fitta lista perché apporta il tocco unico
del suo autore con la sua poliedrica cultura. Sono essenzialmente due i
contributi specifici dell’opera: il viaggio narrativo e culturale che l’autore
offre (e che sa fare con singolare erudizione); i capitoli aggiuntivi che
riflettono sue alcune tematiche annesse alle sette parole di Gesù in croce. A
quest’ultimo punto torneremo alla fine della breve recensione.
Sette parole:
di cosa si tratta
Bisogna subito
chiarire che non si tratta di sette parole, ma di sette frasi. Nella redazione
greca dei Vangeli, ci troviamo dinanzi a sette frasi composte di 41 parole,
compresi gli articoli e le particelle. Queste frasi hanno ricevuto una
titolatura codificata: Le sette parole di Cristo in croce e sono state
messe in sequenza secondo diverse enumerazioni.
Ravasi adotta quasi
integralmente l’ordine proposto da un monaco certosino, Ludolfo di Sassonia,
autore della probabile prima Vita Jesu Christi, una biografia pubblicata
nel 1474 a Strasburgo
Questa è la
successione proposta da Ludolfo e alla quale Ravasi ha aggiunto le
specificazioni essenziali, introducendo una piccola variante ormai seguita da
molti, anticipando cioè la parola alla madre e al discepolo amato rispetto a
quella destinata al malfattore pentito:
1. Ai
crocifissori: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc
23,24).
2.Alla madre
Maria: «Donna, ecco tuo figlio». Al discepolo amato Giovanni: «Ecco tua madre»
(Gv 19,2627).
3.Al malfattore
pentito, crocifisso accanto a lui: «In verità ti dico: oggi sarai con me nel
paradiso» (Lc 23,43).
4.«Elì, Elì,
lemà sabachtani? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; cfr. Sal 22,2).
5.«Ho sete!» (Gv
19,28).
6.«Tutto è
compiuto!» (Gv 19,30).
7.«Padre, nelle
tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46; cfr. Sal 31,6).
Lo stesso Ludolfo
ricordava, però, che al suo tempo esisteva un’altra suggestiva elencazione ottonaria
a coppia che possiamo così visualizzare:
Ai
peccatori:
«Padre, perdona
loro, perché non sanno quello che fanno».
«Oggi sarai con
me nel paradiso».
Ai buoni:
«Donna, ecco tuo
figlio».
«Ecco tua madre».
Al mondo:
«Ho sete».
«Tutto è
compiuto».
Al Padre:
«Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?».
«Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito».
«Gesù – secondo
Ravasi – sulla croce lancia quasi un suo ideale testamento, molto più
essenziale ma di uguale potenza rispetto a quello più ampio dei discorsi
dell’ultima cena secondo il quarto Vangelo (Gv 13–17)».
Da quell’ambone
della croce, la Parola non predica, dice poche parole, ma queste parole sono
eco di tutta la profondità della parola eterna. Teologi, martiri, artisti, registri,
letterati hanno letto queste parole e vi hanno scoperto sfumature infinite. Dostoevskij,
pensando alla provocazione dei giudei rivolta a Gesù, scrive: «Tu non
discendesti dalla croce quando ti si gridava: “Discendi dalla croce e crederemo
che sei Tu!”. Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo. Avevi
bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede
libera, non fondata sul prodigio».
Come anticipato,
i capitoli dedicati da Ravasi a ognuna delle suddette parole sono seguiti da
tre capitoli. Il primo esplora gli eventi dopo le ultime parole, quindi la
morte di Gesù, ma anche gli eventi della risurrezione.
Il capitolo
successivo – il decimo – riflette sullo scandalo della croce. Tra i paragrafi
interessanti di questo capitolo, segnalo questo: «Atto di espiazione o di
donazione?». Senza entrare nelle sottigliezze teologiche, Ravasi riflette sul
senso della morte di Gesù in croce guardando essenzialmente due (dei tanti)
modelli interpretativi: quello di Anselmo d’Aosta e l’altro modello proposto da
Abelardo e Bonaventura: «[…] La riflessione
teologica elaborava frattanto due modelli ermeneutici differenti riguardo al
valore salvifico della croce di Cristo. Il primo è da individuare nell’opera
Cur Deus homo? (1098) di Anselmo d’Aosta e ha come base la sua dottrina del
peccato. Esso è offesa a Dio, ed essendo Dio infinito, anche questa offesa
diventa senza misura ed esige una riparazione proporzionata, ossia infinita.
Ebbene, la croce di Cristo è appunto questa offerta riparatrice perfetta,
essendo opera del Figlio di Dio.
L’altro modello
fu proposto da Abelardo e da san Bonaventura: esso mette invece l’accento sulla
croce come dimostrazione d’amore che il Figlio a nome del Padre testimonia
condividendo il dolore umano, penetrando nel groviglio oscuro del male per
scioglierlo e redimerlo. L’Incarnazione è l’espressione suprema di questa
condivisione perché Dio in Cristo partecipa al limite della sua creatura
soffrendo e morendo».
Un ultimo
capitolo esplora invece le espressioni artistiche varie (pittura, musica, ecc.)
legate alle ultime parole di Gesù in croce.
Il libro di
Ravasi si configura meno come un libro di meditazioni quanto un arredo
culturale che aiuta a collocare meglio le parole di Gesù in croce. Come i vari
libri del dotto autore, il volume è pieno di connessioni geniali tra vari
ambiti del sapere. Purtroppo, però, mancano i riferimenti in nota che
faciliterebbero l’impresa a chi desideri risalire alle fonti delle citazioni.
Chiudo questa breve presentazione con un passo del testo:
Un famoso detto medievale asseriva, ricorrendo a un’analogia sonora, Per crucem ad lucem, mentre in francese si coniava la formula La croix est l’echelle des cieux, «La croce è la scala per ascendere ai cieli». Anche Edith Stein ribadiva questa convinzione che circonfonde di luce la croce del Calvario: «La croce non è fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo verso l’alto, simbolo trionfale con cui Cristo batte alla porta del cielo e la spalanca. Allora ne erompono i fiotti della luce divina, sommergendo tutti quelli che marciano al seguito del Crocifisso» (p. 243).
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