Capire che il
peccato è una malattia che rode l’interiorità e non qualcosa di estrinseco che
subiamo perché ci sono leggi imposti dall’alto è l’inizio del cammino di
maturazione morale. Il male fa male. Il bene fa bene. Per questo i Padri del
deserto usavano spontaneamente e spesso categorie mediche per designare il
peccato e le sue conseguenze: il peccato, dicono, costituisce una malattia
molto grave che colpisce tutto l'essere dell'uomo e lo priva della sua salute integrale
e, quindi, della salvezza.
Nel libro Sette malattie spirituali. Entrare nel dinamismo dei moti interiori, suor
Catherine Aubin riflette in chiave esistenziale e spirituale sui vizi capitali.
L’autrice presenta il libro (tradotto dal francese dai tipi della Queriniana) come un breve trattato sul giardinaggio interno e,
per alla luce di tale analogia, spiega che il lavoro d’ingresso nei dinamismi
dei moti interiori è simile al procurarsi e all’utilizzare strumenti di
giardinaggio per identificare, potare e tagliare le erbacce per dissodare il
terreno e far fruttificare gli alberi del nostro cuore.
Come appena,
salvezza e salute integrale non sono concetti distanti, anzi, la salvezza
consiste nel liberare ciò che ostacola la crescita dell'essere.
Il percorso del
libro, però, non è solo un confronto e uno scontro con i vizi capitali. Esso è
soprattutto un’esplorazione interiore che è anche un incontro, un dialogo e un
cammino con Cristo nello Spirito Santo, un'apertura del cuore al suo amore
incondizionato per noi, per permetterci di guardare le nostre infermità,
mancanze e malattie al fin di essere salvati e liberati da esse.
La dottrina dei
vizi capitali , formulata per la prima volta da Evagrio il Pontico (345-399),
un padre monastico orientale, è passata in Occidente grazie a Giovanni Cassiano
(360-435). Essa fu poi rielaborata da Gregorio Magno (540-604). Ognuno di
questi autori dall’afflato monastico ha impresso la dottrina dei vizi capitali
con la sua esperienza e con l’influsso del suo contesto vitale e culturale.
Anche il numero varia. In oriente si parla di otto logismoi (pensieri viziosi)
e si parte generalmente dalla gola. In Occidente, con l’influsso appunto di
Gregorio Magno, L’orgoglio diventa la porta d’ingresso e si eleva anche a madre
di tutti i vizi.
La lista ormai
diffusa (ma sempre con qualche variazione) è la seguente: orgoglio, avarizia,
invidia, ira, lussuria, gola, accidia. Vale la pena ricordare che si chiamano “capitali”
non perché siano più gravi di altri peccati, ma perché sono dei “capi” da cui
scaturiscono e si generano (e degenerano) altri vizi.
L’autrice tratta i
vizi capitali seguendo lo schema occidentale e quindi cominciando con l’orgoglio.
Soffermiamoci per
un istante, come invito alla lettura, sull’analisi proposta da Aubin dell’orgoglio
o della superbia, madre di tutti i vizi. La persona orgogliosa, spiega l’autrice,
ignora se stessa, prendendosi per quello che non è. In questo, la superbia è
proprio il contrario dell’umiltà la quale è la verità. L'umiltà consiste in un
certo sguardo su se stessi, nonostante (e con) le proprie capacità, doni e
qualità riconosciute. L’umiltà non è chiudere gli occhi sui propri doni, ma
aprirli bene per vedere il Donatore.
I doni spirituali
sono doni di cui siamo solo custodi, amministratori o debitori.
Portando il
discorso dell’umiltà anche nelle sfere dell’essere di Dio, l’autrice spiega che
se Dio è Amore, è perché è umile. Dio ha pronunciato su di noi un «ti amo»
incondizionato, ci rivela che l'umiltà porta all'amore gratuito.
Dall’amore di Dio
impariamo che l’umiltà “fa spazio” e crea uno spazio nella persona, una
distanza che si potrebbe chiamare “spogliarsi”. L'umiltà ci rimanda al nostro
terreno interiore e al nostro "humus", cioè ai nostri limiti. Nell'umiltà c'è una grande consapevolezza
della realtà e di ciò che ci offre.
In questa
consapevolezza sta il distacco dalle cose e, soprattutto, da noi stessi. È qui
che entra in gioco l'umorismo con la sua capacità di ridere di se stessi.
L'umile è gioioso nell'essere pura capacità. Il risultato finale è questa
gioiosa distanza da noi stessi: né disperazione né ironia, ma benevolenza,
gentilezza e verità sulla nostra personalità a volte pesante e complicata.
Il vangelo ci
insegna che l’umiltà è un dono di Dio ed è un’arte che si impara guardando al volto
di Dio rivelato in Cristo: «Imparate da
me che sono umile e mite di cuore» (Mt 11,29).
Nella nostra
relazione con Dio, ci sono due principali tendenze dell'onnipotenza: fare a
meno di Dio o prendere se stessi per Dio. Il realismo di uno sguardo onesto su
noi stessi ci apre alla grazia dell’umiltà e ci fa capire che siamo polvere. Il
salmista evidenzia quest’esperienza di realismo spirituale: «L'uomo: come
l'erba sono i suoi giorni! Come un fiore di campo, così egli fiorisce. Se
un vento lo investe, non è più, né più lo riconosce la sua dimora» (Sal 103,15-16).
L’orgoglio, allora, si manifesta come ignoranza. A ragione scrive san Giovanni
Crisostomo: «Non è la conoscenza che porta alla vertigine dell'orgoglio, ma
l'ignoranza».
L’autrice
aggiunge spiegando che l'orgoglio, oltre a essere una profonda ignoranza, è
una grande povertà umana e spirituale. La persona orgogliosa, che pensa di
essere qualcosa da sola, mostra la più totale ignoranza di se stessa, non si
conosce e non conosce Dio. La vera comprensione e conoscenza di noi stessi
consiste nel sapere che non siamo niente da soli, indipendentemente da Dio: «Se
infatti uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso» (Gal 6,3).
L'orgoglio è un
inganno. La verità è l’umiltà. E l’inganno dell’orgoglio è solo il primo tra i
vizi che viziano la realtà, viziano il nostro sguardo su di essa e ci privano,
ancora prima della vita eterna, di una buona vita su questa terra.
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