Recensire un
libro di Pierangelo Sequeri sulle pagine a missione divulgativa di questo blog
di “teologia in briciole” rischierebbe di essere un doppio atto di tradimento:
un crimine di alto tradimento contro la divulgazione; un annacquamento del pensiero di un teologo
noto per la densità diamantina delle sue sintetiche formulazioni. Eppure, chi
riesce a sostenere la “fatica del concetto” ( come la chiamava Rahner), non
esce a mani vuote dai testi di Sequeri e in un questa “#1pagina1libro”, vorrei
tentare di tradurre (sperando di non tradire) almeno una delle intuizioni di uno
degli ultimi testi dell’autore, docente emerito di teologia fondamentale presso
la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, intitolato Iscrizione e rivelazione. Il canone testuale della parola di Dio, Queriniana 2022.
Prima di tuffarci
nel filone scelto, vale la pena indicare che il volume nasce dalla sollecitazione
di due allievi (ora colleghi) di Sequeri: Ezio Prato e Francesca peruzzotti.
Sequeri ha accolto l’invito ad accorpare gli elementi sparsi sulla teoria e la
pratica del testo biblico enunciati in Il Dio affidabile e sparsi in
altri contributi in dialogo con l’esegesi, la liturgia, la letteratura,
l’estetica e la pastorale. Il risultato è questo volume in quattro parti: la
prima e la terza costituite da saggi già pubblicati e la seconda e la quarta da
testi sostanzialmente inediti.
Veniamo ora al
tema che vorrei mettere a fuoco e che si ispira essenzialmente alla prima parte
del volume: la pratica del testo biblico. Tale pratica si trova tra due estremi
che, ognuna a modo suo, ignora uno degli autori del testo. Da un lato, vi è la
spiritualizzazione eccessiva del testo dove si tende a mettere in rilievo l’Autore
divino a discapito degli autori umani ridotti a meri strumenti e scrivani. Dall’altro,
vi è l’orizzontalizzazione del testo che lo riduce a un testo umano troppo
umano, senza alcun riferimento all’Autore divino. Chi cerca di fare della
teologia, con la Scrittura quale anima di questo ministero, è familiare con la
tensione sovente irrisolvibile tra esegesi e teologia. Sequeri puntualizza la
ragione di fondo di questa tensione così: «L’autorevolezza canonica dei libri
sacri, ricondotta alla speciale qualità dell’ispirazione divina che presiede la
loro composizione, non li sottrae alla reale complessità storica della loro
formazione, della loro redazione e della loro recezione. La dottrina credente
dell’ispirazione e delle condizioni normative dell’appropriazione del senso/dei
sensi scritturistici implica certamente il riferimento a una indisponibile
azione storica di Dio e a una iniziazione spirituale affidata alla cura della
chiesa».
Tale tensione
rimanda al rapporto tra la Rivelazione e la Scrittura. Quest’ultima non è la Rivelazione
tout court, bensì « iscrizione della rivelazione passata a futura memoria». In
altri termini, bisogna riconoscere che «la rivelazione non è l’involucro
scritturale». Nondimeno, la manomissione della lettera comprometterebbe l’accesso
alla rivelazione. Lettera e spirito camminano insieme. Separarli è affondare l’una
e l’altro. Blondelianamente parlando, è la pratica fedele della lettera che è la
porta d’accesso allo spirito. Respirare il testo è l’unico modo per accedere
alla sua ispirazione. Questo peso e questa responsabilità sono felicemente
condensati nella formula «rivelazione attestata» che si trova nel documento
della Pontificia Commissione Biblica su L’interpretazione della Bibbia nella
Chiesa. Quest’espressione, usata en passant nel documento della PCB è
pregna di fecondità. Sequeri la interpreta così: «La realtà della rivelazione,
infatti, come evento reale dell’autoattestazione di Dio alla quale il testo
rinvia, è sempre più grande e più inafferrabile del testo stesso: non coincide
con il significato documentale degli scritti che lo compongono e con le
riscritture, le integrazioni, i commenti che la rendono accessibile». E le
implicazioni concrete non sono assolutamente di poco conto perché «la consegna
della manifestazione di Dio, sperimentata nella storia della vita di fede e
nella esperienza della relazione credente, alla forma scritta dell’attestazione
e della comunicazione, implica una fondamentale decisione sull’accessibilità di
quella manifestazione anche a distanza dal suo prodursi e anche per il non
contemporaneo».
Accettare la
mediazione mette in gioco l’uomo e Dio: «Nell’accettare la mediazione della
scrittura – unica e insostituibile, e al tempo stesso pubblica e disponibile –
anche il soggetto divino accetta in certo modo di congedarsi dalla mera
autoreferenzialità dell’atto rivelatore. La scrittura destinata a questa
sottrazione, nei confronti dell’ attualismo irripetibile dell’evento,
interrompe anche il circuito di una possibile requisizione esoterica e/o
anacronistica del testo sacro. Il contrarsi e il ritrarsi della manifestazione
di Dio nella parola testimoniale consente al testo biblico la possibilità di
avere una propria storia: sia rispetto all’evento fondatore, sia rispetto alla
tradizione ermeneutica. Analogamente, il testo che ne procede esibisce in ciò
stesso l’onestà intellettuale dell’originaria diakonía e dell’irreversibile
sottomissione della scrittura testimoniale alla rivelazione attestata».
In questa linea,
lo spazio liturgico – tra preghiera, predicazione e vissuto – costituisce lo
spazio di incontro tra le due “nature” del testo, tra le sue due dimensioni e
due esigenze. Lo spazio liturgico è «il polo rituale necessario della
costituzione e della restituzione canonica del testo». La celebrazione, «in
quanto lettura regolata e attualizzazione ermeneutica della Parola, sottrae la
rivelazione biblicamente attestata a ogni requisizione esoterica e a ogni
congelamento fondamentalistico».
Il circolo che si
istituisce allora è il seguente: la fede cerca l’esegesi quando vuole leggere-dentro
il testo, giungere alla sua intelligenza diacronia. Ma anche l’esegesi
interpella la fede perché è nel milieu credente, liturgico che offre la
luce per comprendere veramente il testo nella sua sincronia. Si instaura così
non è un rapporto di esclusione reciproca tra metodo storico-critico e lettura
credente, ma un rapporto circolare che passa per il volto ecclesiale del testo,
già riconosciuto nella sua canonicità non certo a partire dal sensus ecclesiae.
Questa circolarità è ben riassunta da Sequeri così: «L’ispirazione
scritturistica potrà essere dunque intesa come la qualità teologale della
coscienza che accetta la responsabilità dell’attestazione in vista del suo
compimento». L’ispirazione del testo sacro è un dono ed un compimento. È un “in
principio” che attende una realizzazione attuale e tende al compimento escatologico.
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